Perché sentiamo l’istinto di narrare? A che ci servono le storie? La risposta è molto complessa e ogni capitolo aggiunge un tassello argomentativo a spiegazione di questa attività umana universale che si è mantenuta attraverso diversi mezzi nei millenni. L’elemento che nel corso laboratorio di scrittura fa da collante e da motore propulsore per il gruppo sono le storie di vita di ognuno. Spesso si tratta di piccoli frammenti di vita, immagini, ricordi, rievocati grazie agli stimoli proposti dalla conduttrice del gruppo.

Si scrive tanto, ma soprattutto si raccontano e condividono delle storie che ci incantano, divertono, sorprendono, ci fanno vedere con altri occhi chi ci siede vicino, ci fanno Conoscere l’un l’altro. La potenza di una storia si esprime massimamente in un laboratorio strutturato in questo modo: si rivive e si ri-significa la propria storia con e attraverso le storie degli altri.

“Narrare, come afferma Gottschall nel titolo del suo libro, ci ha reso umani nella storia evolutiva e lo continua a fare anche nel mondo post-moderno.”

La domanda che ci pone l’autore dall’inizio è: ‘Perché sentiamo l’istinto di narrare? A che ci servono le storie?’ La risposta è molto complessa e ogni capitolo aggiunge un tassello argomentativo a spiegazione di questa attività umana universale che si è mantenuta attraverso diversi mezzi nei millenni.

Nei primi capitoli viene descritto il mondo della narrazione: innanzitutto l’autore riflette sul potere ammaliante delle storie. La fascinazione che la narrazione agisce sugli uomini è evidente sin dall’infanzia; i bambini adorano i racconti e vivono, dai due anni circa, immersi nel ‘facciamo finta che’, questo bisogno sembra impellente tanto quanto i bisogni primari, come cibo e sonno.

Negli ultimi decenni è andato diffondendosi un grande allarmismo rispetto alla diminuzione della lettura di narrativa, certo questo è un dato da tener presente , ma è altresì importante non dimenticare che la funzione narrativa è tutt’altro che superata, semplicemente si serve di nuovi strumenti come tv, internet, blog, etc. Infine a noi stessi raccontiamo quotidianamente le storie migliori, piene di finzioni e ri-arrangiamenti di cui quasi sempre non siamo consapevoli.

Quanto detto non ci aiuta però a spiegare perché nel corso dell’evoluzione questa attività piacevole non si sia estinta. Come mai questo istinto è ancora così forte in ogni comunità umana? Quali sono i benefici per la nostra specie?

L’autore nel proseguo dei capitoli si interroga e porta il lettore a interrogarsi sulle svariate ragioni che sottendono all’attrazione per la narrazione. A tal proposito vengono riportati alcuni studi che interpretano questa caratteristica umana come un effetto collaterale dell’evoluzione (Bloom, 2010): le storie ci possono dare piacere, possono veicolare messaggi, ma non avrebbero finalità biologiche.

Questa tesi fatica ad imporsi poiché la narrazione costituisce un ‘universale umano’ in tutte le culture e in tutte le epoche storiche, se fosse davvero solo un fronzolo edonistico l’evoluzione avrebbe eliminato questa inclinazione poiché motivo di inutile spreco di energie.

Una delle prime spiegazioni ci viene fornita da studiosi come Dutton (2009), che sulla scia di Darwin afferma che il raccontare storie sia frutto della selezione sessuale. Così come in epoche antiche i narratori di storie radunavano attorno a loro la tribù, oggi la comunità si riunisce virtualmente (blog, riviste on-line) e chi ha qualcosa da raccontare fa sfoggio delle proprie qualità e capacità di intelligenza e creatività nella narrazione e questo moltiplicherebbe la probabilità di riproduzione.

Boyd (2009) afferma che le storie sono una sorta di gioco cognitivo e attraverso di esse si possono carpire informazioni e dedurre insegnamenti dalle esperienze altrui; fungono anche da collante sociale, pensiamo ai miti modelli di riferimento condivisi per intere civiltà.

Nella trattazione si presenta un’altra questione: ‘perché i contenuti delle storie sono prevalentemente costituiti da guai e difficoltà?’ A partire dalle ninnananne e dai giochi dell’infanzia le storie hanno come contenuto principale le avversità, studi sui giochi di bambine e bambini confermano quanto stiamo dicendo.

L’ homo sapiens è quindi ossessionato dalla difficoltà? La risposta è si! La letteratura per essere interessante deve rappresentare conflitti drammatici e situazioni problematiche, Aristotele fu il primo a notarlo nella Poetica ed oggi è una nozione di base dei corsi di letteratura: ciò che nella realtà ci angoscia, nella finzione ci interessa e ci dà piacere.

La grammatica universale della storia è: personaggio + situazione difficile + tentativo di superamento. La psicologa e romanziera Keith Oatley (2008) considera le storie ‘simulatori di volo’ per la vita sociale umana, il nostro sistema cognitivo avrebbe come mezzo fondamentale il problem solving per raggiungere i propri scopi e la narrazione sarebbe pertanto una fondamentale opportunità di allenare la nostra capacità di fronteggiamento delle situazioni difficili pur non esponendoci a pericoli reali.

Gli studi sui neuroni specchio sono coerenti con questa teoria (Rizzolati, 2008), quando vediamo o riviviamo attraverso una storia una certa situazione questa è esperita come se fosse vissuta in prima persona. Le cellule cerebrali che si attivano al vedere 2 persone baciarsi o lottare sono le stesse che si ‘accendono’ quando nella realtà viviamo queste esperienze.

Le storie non ci abbandonano nemmeno nel sonno: grazie a studi (Jouvet, 1999) su animali (gatti con lesione del tronco encefalico: scomparsa dell’atonia nel sonno rem, osservazione di comportamenti solo di attacco – fuga nel sonno) e sull’uomo (resoconti) si è evidenziato che il contenuto dei sogni è, nella maggioranza dei casi, incentrato su pericoli, problemi e ansie che caratterizzano le sfide quotidiane. Il nostro cervello simula di notte problemi da risolvere di giorno, per massimizzare il nostro successo come specie.

La mente è una narratrice molto creativa e abile. Si racconta storie di ogni genere per dar senso alla condizione umana, le teorie cospiratorie a cui si appellano persone di ogni estrazione socio-culturale sono da sempre molto diffuse e creano significato, ci consegnano la personificazione del maligno da condannare.

Le religioni sono la medesima risposta al bisogno umano di schemi e spiegazioni inoltre fanno ‘funzionare’ meglio le società, forniscono un insieme di regole che proteggono il gruppo d’appartenenza.

L’autore in seguito ci fa riflettere sulla natura morale delle storie che pervade anche la letteratura definita, a secondo della morale del tempo, sovversiva; le storie fungono da lubrificante sociale, riuniscono le persone e le comunità intere attorno a valori condivisi e pro-sociali.

Aspetto altresì importante che emerge dalla lettura di questo libro è la grande influenza che la narrazione finzionale ha sui fatti storici e sull’opinione pubblica. In uno degli ultimi capitoli è riportato un esempio di quanto affermato: nel 1852 venne pubblicata la storia di lotta per la liberazione di una schiava americana, Eliza Harris, il successo di pubblico fu enorme e ciò contribuì grandemente a rafforzare la spinta abolizionista del Nord America.

Sono stati condotti anche esperimenti di laboratorio riguardo al potere persuasivo che le storie hanno sulle credenze delle persone. Appel (2009) dimostrò che è possibile far credere cose piuttosto bizzarre come: lavarsi i denti fa male, si può prendere la pazzia entrando in un istituto psichiatrico, etc. col solo utilizzo di finzione narrativa.

Riporto un passo del libro che ben evidenzia qual è la differenza tra un resoconto di avvenimenti e un’opera finzionale e quanto quest’ultima forma possa agire sulle nostre convinzioni e sul nostro ‘sentire’: “quando leggiamo opere non finzionali, leggiamo con gli scudi levati. Siamo critici e scettici, ma quando siamo assorbiti da una storia, abbassiamo la nostra guardia intellettuale, siamo toccati emotivamente, e questo pare lasciarci senza difese”.

fonte: https://www.stateofmind.it/2014/06/psicologia-potere-narrativa-mente/